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Lo scontro verbale, avvenuto tra il lavoratore e il suo diretto superiore, che ha dato vita al licenziamento, appariva come una comprensibile, seppure censurabile, reazione del primo all'attività di provocazione posta in essere dalla direzione aziendale in suo danno ed in particolare dal predetto superiore.  Di conseguenza, è illegittimo il licenziamento intimato dalla società al dipendente, con qualifica di quadro, e per questo è stata condannata la società a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a corrispondergli le retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra, con gli accessori di legge; mentre, la Corte ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore. La decisione si basa sul principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia da tempo individuato l'inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. civ., n. 14551 del 2000; Cass. civ., n. 16260 del 2004), sicchè quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Cassazione civile , sez. lavoro, sentenza 15.01.2013 n° 807

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